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Cari lettori,

Il cammino di questo popolo e la veridicità di quanto professiamo non sarebbero tali se non avessero portato dei frutti nella vita di ciascuno di noi, e se non vivessimo con fede, amore e speranza, la quotidianità, con le prove che porta. Proprio per questo, dopo l’annuncio di padre Tomislav e Stefania di ritirarsi, affidando tutta la loro eredità spirituale alla Fondazione, abbiamo pensato di aprire su questo sito uno spazio in cui, chi lo desidera, possa raccontare della trasformazione che Dio ha operato in lui nella chiesa di Gesù Cristo dell’Universo, e di come Dio abbia potuto glorificarsi anche in vicende dolorose della vita; questo non avviene mai  “magicamente” ma è sempre il frutto della comunione, della preghiera e dell’offerta di tutti i membri del Suo popolo.  

Testimonianza Judith, 49 anni, austriaca

 

Quando fine 2017 mi è arrivata per la seconda volta la diagnosi di un tumore al seno, avevo un progetto completamente diverso per i mesi a venire. Volevo approfondire un percorso di coppia in Italia nel seno della chiesa di Gesù Cristo dell’Universo il cui cammino stavo seguendo già da anni. Dato che con il primo tumore avevo già fatto esperienza con chemio e radioterapia, non volevo seguire le terapie propostemi dalla medicina tradizionale, anche se non erano né chemio né radioterapia. E come in questi anni di cammino nella chiesa di Gesù Cristo dell’Universo avevamo identificato come parte integrante di questo cammino proprio il campo della medicina nuova che partiva innanzitutto dal concetto che l’uomo è fatto di spirito, anima e corpo e che il funzionamento di ciascuno di questi tre elementi e il funzionamento tra di loro influiscono fortemente sulla salute dell’uomo, volevo vedere dove mi portava un percorso partendo da questi presupposti. Questa decisione era anche frutto della mia preghiera in cui mettevo tutto davanti a Dio per capire meglio, cosa e come fare.

 

Aiutata dalla comunione con i membri della chiesa di Gesù Cristo dell’Universo, cercavo di assecondare quel percorso che Dio voleva fare con me dopo la diagnosi della malattia, nella semplicità della vita di ogni giorno senza mettere la mia malattia al centro ma permettendo che emergessero i blocchi dell’anima e quello che bloccava il fluire della vita tra spirito, anima e corpo.

Per me era importante poter condividere quello che si risvegliava dentro di me come, per esempio, la paura della morte. Mi rendevo conto che era da un lato la paura dell’ignoto, la paura di lasciare una realtà che si conosce per entrare … sì, certo in una realtà in cui credo per fede, ma che in quel momento per me non era tangibile. E dall’altro lato la paura del momento stesso della morte, di questo ultimo momento che ciascuno deve affrontare da solo; questa lotta che San Francesco ha descritto come una lotta che lui voleva affrontare nudo contro il nemico nudo; questo ultimo momento di verità.

Tutte queste cose che si muovevano dentro di me, tutto quello che toccavo, potevo portarlo nella Santa Messa per lasciarlo nelle mani del sacerdote ministro perché venisse elevato sull’altare del cielo.

 

Anche se avevo rifiutato all’inizio di prendere qualche farmaco, quando i dolori diventavano troppo acuti, dovevo ammettere che senza antidolorifici non ce la facevo più. Lo vivevo come sollievo poter condividere con gli altri la paura che gli antidolorifici, che erano a base di morfina, potessero causare allucinazioni. Ridevamo tanto immaginandoci cosa avrei potuto vedere … La comunione mi ha aiutata ad arrivare a una consapevolezza importante riguardo ai farmaci che dovevo prendere, e cioè che Dio è più grande di ogni farmaco, di ogni possibile terapia e anche se hanno un determinato effetto, Dio sta al di sopra e li usa secondo il suo disegno. Questa consapevolezza mi accompagna finora e nel frattempo ha ampliato anche il suo raggio d’azione (trova per esempio applicazione anche riguardo al vaccino contro il Covid-19).

 

Man mano i dolori si intensificavano, sempre meno ero autosufficiente, anche nelle piccole cose come nel lavarmi o vestirmi, fino al momento in cui è cominciata la paralisi alle gambe. In tutto questo tempo avevo persone accanto a me che non solo mi aiutavano, ma lo facevano anche con piacere. E proprio questo piacere, che mi comunicavano, mi aiutava a superare ogni paura di sentirmi di peso.

 

 Con l’intensificarsi dei dolori e l’incapacità sempre maggiore di camminare, dovevo rinunciare a partecipare alla Santa Messa. Dovevo ritornare a partecipare in spirito alla Liturgia del Cielo: mi costava perché le grazie toccate nella Santa Messa erano più immediate e complete che nella partecipazione alla Liturgia del Cielo. Tra l’altro i dolori rendevano più difficile allo spirito di elevarsi.

 Sempre con l’aiuto della comunione, e seguendo il percorso della medicina secondo le leggi dello spirito, avevo già risolto e sciolto molto blocchi però rimaneva sospeso ancora il mio cammino di coppia. Perciò pensavamo di utilizzare il tempo, che sembrava essere il mio ultimo, per andare fino in fondo anche di questo: il passaggio della morte non sembrava tanto lontano.  Mi rendevo conto che la mia ‘missione’, se si può dire così, già allora era confrontarsi con tutto quello che la malattia mi metteva davanti e non quello che la realtà chiedeva agli altri. E solo ultimamente mi sono resa conto che questo dovere di confrontarmi con quello che la malattia mi mette davanti non significa di non essere al passo con la grazia o di essere fuori dal percorso di altri membri del popolo, ma che è proprio il cuore di questo percorso che viene chiesto a ciascuno secondo la propria identità e missione.

Dovetti trovare, sempre più, anche un equilibrio con la medicina tradizionale: infatti, inizialmente, secondo la mia percezione, seguire le terapie proposte dalla medicina tradizionale era tradire il cammino che avevamo fatto nella medicina nuova, cioè accompagnare il percorso di purificazione e guarigione della mia anima permettendo la liberazione dello spirito. Non avevo capito che l’una non esclude l’altra ma che devono andare di pari passo, che ci deve essere sempre quell’ascolto in Dio per capire in che direzione andare e che terapia fare, che farmaco prendere, e che l’offerta del popolo aiuta quell’ascolto. E perciò cominciavo a sottomettere tutte le mie decisioni, le mie terapie, i miei farmaci e certamente anche i miei medici a Dio, pregavo Sant’Uriel e il suo nucleo della medicina nuova di accompagnarmi e ringraziando Dio per il popolo che mi sosteneva. Mi aiutava quel: Dio è più grande di ogni terapia, di ogni farmaco, e mi fidavo di Dio.

Nell’andare avanti, contrariamente da quanto era stato previsto e da come avrebbe dovuto essere il mio percorso in base alla mia patologia, mi stavo riprendendo fisicamente – comunque sempre nella sedia a rotelle e paralizzata dal bacino in giù – ma cominciava a manifestarsi sempre di più una sensazione di morte interiore che vivevo e che si manifestava anche nel percorso di coppia. Ogni sentimento verso il mio compagno era sparito e continuare la vita insieme sembrava ridursi al bisogno di avere qualcuno accanto che si prendesse cura di me, e non ci sembrava che Dio ci stesse chiedendo questo. Il cammino di coppia si fermava allora lì, anche se con un grande dispiacere.

 

Questa morte interiore faceva sì che la vita avesse perso tutto il suo fascino, tutta la sua bellezza. Ogni giorno era soltanto un tirare avanti, uno sforzarsi di alzarsi, di trovare qualcosa di cui occuparsi e di arrivare fino a sera. Anche le passeggiate non mi davano nessun conforto, vedevo la natura sbocciare, il sole brillare, ma niente riusciva a toccarmi dentro. La cosa più pesante era che questa sensazione di morte si manifestava anche verso Gesù eucaristico. Non sentivo niente stando davanti a Lui, non sentivo la sua presenza, il suo amore. Nessun conforto, neanche nella preghiera. Niente. Pensavo che un cammino, in cui morire a se stesso era una delle basi, mi avrebbe preparato a gestire una tale situazione. Mi venivano in mente testimonianze di altre persone che nel loro percorso verso la morte erano completamente abbandonate a Dio, vivevano una pace e una serenità profonda. Si sentivano accompagnate e portate da Dio. Io, invece, facevo molta fatica a vivere questa morte interiore e morire davvero mi sembrava l’unica via d’uscita dal peso della vita stessa.

Le uniche boccate d’aria erano le mie telefonate con i fratelli e le sorelle della chiesa: condividevo con loro la mia fatica di accogliere questa lotta e di stare in questa morte. Mi aiutavano a capire che dovevo lasciare le mie idee per come dovevo vivere la malattia e che dovevo lasciare la vita di prima. Altrimenti mi sarei concentrata su quello che non avevo o non potevo più e non avrei visto che avevo già tutto quello che mi serviva. Mi aiutavano a capire che accogliere questa lotta per la vita bastava già, che non dovevo fare altro: bastava portarla per quanto e per come potevo.

Gli sfoghi che facevo con Dio erano altrettanto importanti come quelli che facevo con loro. Buttavo in faccia a Dio la mia fatica di andare avanti, di stare in questa morte, ma anche il dolore che sentivo pensando che ci voleva questa morte, tutta questa situazione così pesante per raddrizzare me stessa e la mia vita. Una volta, dopo le lacrime dello sfogo che avevano pulito tutto dentro di me e in quella quiete interiore che seguiva, mi rendevo conto che non spettava a me di giudicare me stessa, che non ero in grado di valutare quello che vivevo e a che cosa serviva perché solo Dio lo sapeva. Solo Dio sapeva tutto della mia vita, sapeva quello che serviva e in che modo.

In questo contesto sorgeva anche la domanda sull’amore di Dio. La morte, la fatica, il dolore, erano onnipresente; la realtà non mi parlava del suo amore, la croce da portare mi sembrava troppo pesante. Dov’era allora il suo amore? Dov’era quel Padre amoroso che protegge i suoi figli come la pupilla dei suoi occhi mentre le cose andavano di peggio in peggio? E anche lì, nel silenzio dopo lo sfogo, mi rendevo conto che avevo cercato di percepire l’amore di Dio in modo sbagliato, che misuravo l’amore del Padre secondo criteri umani. Volevo sentirlo in modo umano, un sentimento che riempie il cuore, che dà conforto, sollievo. Invece ci voleva, anche lì, un atto di fede e dire: “Io so che Tu mi ami. Non Ti sento come vorrei, ma so che ci sei, so che guidi ogni attimo della mia vita. So che quello che stai facendo è per il mio bene anche se non mi sembra. So che quello che sta succedendo ha un suo senso, anche se non lo vedo e non lo capisco”. Poi guardavo Gesù sulla Croce, che sofferenza la sua e che amore!

 

Non so come mai, ma nel 2019 pian piano riuscivo a muovere le mie gambe. Non avevo fatto qualcosa di particolare, e anche la sensazione della morte era presente come prima, ma si vedeva che nel disegno di Dio andava bene questo miracolo a questo punto. Dovevo soltanto fare un intervento al femore perché la testa si era rotta e in seguito pian piano ricominciavo a camminare.

Nel 2019 cominciavamo anche a ritrovarci come nucleo a casa mia. Anche lì andavo avanti per fede perché persino nelle preghiere comunitarie non sentivo la presenza di Gesù. Ma il nostro cammino insieme veniva confermato quando all’inizio dell’anno 2020 diventavamo punto luce.

All’inizio del 2020 sentivo che era tempo di ridurre gli antidolorifici. Forse come conseguenza di ciò o per un’altra ragione, pian piano la morte interiore svaniva e avevo periodi sempre più lunghi in cui non la vivevo. Dove prima non c’era modo di agire dal di dentro contro la morte, adesso capivo cosa dovessi fare. E una cosa è certa: non era merito mio. Ho sperimentato sulla mia pelle che dipendo in tutto da Dio, non posso in niente cambiare la mia vita, sono solo creatura.

In questo periodo dovevo fare anche un altro passo per me importante. Una volta nella partecipazione alla Liturgia del Cielo al momento dell’offerta all’improvviso mi chiedevo se la mia offerta era vera, cioè se ero veramente disposta a lasciar mano libera a Dio nella mia vita, quindi anche rimandarmi in questa morte, se serviva. Ammetto che non era immediata la mia risposta, sentivo tanta resistenza dentro di me. E solo in questo atteggiamento di fiducia verso di Lui riuscivo a offrirGliela. Da allora penso che l’offra più consapevolmente.

 

All’inizio non capivo tanto perché una malattia potesse essere un dono. Adesso so che è così. Ero costretta a fare certi passi, non potevo sfuggire. Mi aiutava ad accogliere certe situazioni più facilmente e liberarmi di certe cose perché non c’era altra scelta. La malattia è diventata anche una protezione. Devo ascoltarmi di più e rispettare i miei ritmi perché non ho più la forza di prima.

Alcune cose mi sono rimaste come, per esempio, la paura della morte ma ogni volta che salta fuori adesso, la metto in Gesù, sicura che la attraverserò con Lui. In un messaggio alla fine dell’anno 2019 Maria SS. ci diceva che sarà accanto a tutti noi nel momento della morte, lo considero come segno della sua attenzione materna!

Questo percorso nella malattia mi costringeva tante volte a cambiare pensiero e lasciare le mie idee però mi insegnava innanzitutto la fede. E posso solo ringraziare il Signore che sento di nuovo la sua presenza viva.

Luisa

Ho conosciuto la malattia e le risposte che verso di essa si possono avere, sia come medico che come madre, poiché uno dei miei quattro figli (F)  è affetto da una malattia cronica molto invalidante.

Quando a mio figlio è stata diagnosticata la patologia di cui è affetto aveva 14 anni; quindi, era nel pieno dell’adolescenza e con tanti desideri per la sua vita. Con la diagnosi gli è stata tolta la possibilità di vivere tutto quello che umanamente avrebbe voluto: una famiglia, un lavoro soddisfacente, attività coinvolgenti, insomma una vita apparentemente normale. In lui è nata una grande ribellione verso Dio e la vita. Anche gli altri figli erano frastornati e subivano la situazione.  Con uno sguardo umano vedevo da mamma il suo dolore che non potevo, umanamente parlando, alleviare, la sua rabbia, la paura dell’ignoto, dell’imprevedibile, da medico vivevo l’impotenza della medicina che non sempre può curare.  

Ero davanti ad un bivio: chiudermi in un dolore sterile o distruttivo, immerso in rabbia e delusione, oppure accogliere con fede quanto era entrato in modo dirompente nella nostra tranquilla vita, domandandomi cosa Dio ci stesse mostrando attraverso tutto ciò, fiduciosa che Dio conduce la nostra vita con il Suo amore, portandoci ad un bene più grande di quanto il nostro umano pensiero possa comprendere. Da anni partecipavo alla vita della Chiesa di Gesù Cristo dell’Universo, dove la mia fede veniva (e viene) nutrita, dove la comunione con i fratelli mi invitava (e invita) sempre a camminare verso Dio senza ripiegarmi su me stessa; questo mi ha indirizzato verso la seconda possibilità.  Non è stato per me un cammino “solitario” ma accompagnato dalla preghiera, dall’offerta e dalla comunione di tutti i membri della Chiesa di Gesù Cristo: tutti insieme abbiamo cercato di vivere con fede la malattia di F, ed in fretta ci siamo accorti che ci stava aiutando a trasformare il nostro pensiero, a camminare verso Dio e che Egli avrebbe operato cambiamenti in noi ed attorno a noi.  Mio figlio, dopo le sue lotte con Dio profonde e più dolorose della malattia stessa, ha deciso di “arrendersi” a Lui. Da allora sono passati dieci anni; le lotte e le fatiche non sono mancate e non mancano, F non è fisicamente guarito ma ha ricevuto una guarigione interiore ed il dono più prezioso: un grande amore per Gesù, un continuo desiderio di vivere ogni momento con Lui, una grande fede e gioia interiore.  Ha capito che la malattia è stata la sua salvezza, perché il suo corpo ammalato non gli ha permesso di attuare scelte sbagliate, ha compreso che la sua situazione e le sue fatiche offerte sono un dono insostituibile per lui e per altre anime, uno “spazio “in cui Dio si glorifica: in tutto ciò, in modo equilibrato e sano, ha trovato la pienezza. Come madre, non desidero altro. Anch’io ho imparato molto. Come madre ho capito che di fronte alla sofferenza di un figlio non ci si può sostituire a lui, non si può e non si deve togliergli il dolore, ma come Maria, si può stare con lui sotto la croce, offrendogli la sofferenza e permettendo a Dio di agire. Mi è stato insegnato ad avere pazienza, rispettando i tempi di un’anima e quelli di Dio: l’attesa vissuta con Dio genera anche quando sembra ai nostri occhi sterile. Infatti, se avessi forzato F nella sua scelta, se non avessi accettato di non vedere miglioramenti, sarebbe stata una violenza controproducente.  Come medico ho compreso che non ci viene chiesto di guarire solo il corpo ma anche l’anima, che la vera guarigione è la trasformazione delle persone, che se la malattia non può essere curata fisicamente, non significa che siamo impotenti ma abbiamo un compito diverso: aiutare il malato  a viverla secondo il pensiero di Dio.

Vito e Sabrina 

 

Siamo genitori di F., che ha 17 anni e di M., che ne ha 8.  Abbiamo sperimentato la sofferenza, vivendo la malattia del figlio maggiore.

Subito dopo la nascita, contrasse una grave setticemia che lo portò a lottare tra la vita e la morte per mesi, con conseguente perdita della funzionalità renale e trapianto di rene.

A tutto ciò, si aggiunsero altre complicazioni che lo hanno portato in sala operatoria decine di volte.

Non si può descrivere, a parole, il dolore e l'impotenza di non poter fare nulla per, almeno, alleviare per un istante il male e il pianto del nostro piccolo bambino, nel vivere il distacco di tutte le sere, per tre mesi, lasciandolo solo in terapia intensiva (con infermieri e dottori meravigliosi) collegato a strumenti che lo tenevano in vita.

A me, come padre, l’esperienza della malattia di F. ha trasformato il pensiero: nulla aveva più valore della vita che avevo vissuto fino a quel momento e mi è parso tutto così lontano, finto, vuoto!

In me, sono venute alla luce le parole del Vangelo "BUSSATE E VI SARÀ APERTO", ed ho chiesto, con tutte le mie forze:” Perché a mio figlio, perché ai bambini, perché permettere delle malattie così grandi a bambini così piccoli?”

La risposta è nata, dentro me: un Amore Infinito, Sconfinato, Totale, di Gesù verso la nostra umanità, ed ho compreso che questi bambini sono suoi strumenti, che hanno risposto sì, con lo stesso amore di Dio, al momento del concepimento, per portare un pezzo della Croce, con serenità e gioia.

E questo che ho sempre visto negli occhi di tanti bambini che ho conosciuto in ospedale.

Per me, la malattia di F., è stata conversione, salvezza, protezione, chiarezza, incontro con Dio.

Nel cammino in comunione con tutta la Chiesa di Gesù Cristo dell'Universo, e riguardando gli anni passati, io e mia moglie vediamo chiaramente la Sua mano nel condurre gli eventi della nostra vita e trasformarla.

Pian piano abbiamo abbracciato la missione che il Signore, da sempre, aveva nel suo pensiero, perché da sempre viviamo in Lui, affidandoci il dono della malattia di nostro figlio come una perla preziosa.

Vi abbracciamo con amore in Cristo Gesù

Clelia e Arduino

Tutto è cominciato quando nostra figlia, giovane mamma di una bimba di un anno e mezzo e ancora in fase di allattamento, è stata ricoverata per complicanze dovute ad una malattia autoimmune. Durante quel ricovero, le è stata diagnosticata una malattia ancora più importante, per la quale non si sapeva se avesse potuto sopravvivere; i medici ci dicevano che tutto dipendeva da come avrebbe reagito alle cure, nei sei mesi previsti di ospedalizzazione. Quando venivamo a conoscenza di vicende simili, vissute da altre persone, ne sentivamo dispiacere, ma nello stesso tempo non pensavamo potessero accadere anche nella nostra famiglia. E così, da un momento all'altro, ci siamo trovati a stravolgere la vita. Nello smarrimento iniziale chiedi:” perché Signore a mia figlia, non potevi darla a me questa prova?” Ma il disegno di Dio era diverso. Non ci siamo ribellati e abbiamo accolto anche il dolore e le lacrime versate, nel vedere soffrire nostra figlia sia per il distacco dalla sua creatura che per il male fisico, a volte, al limite della sopportazione. Ci sentivamo impotenti. Ci siamo chiesti quale fosse il nostro compito di genitori, in questa dolorosa situazione.  La risposta l'abbiamo trovata nella fede. Abbiamo sperimentato come, partecipare ogni domenica alla s. Messa nella chiesa di Gesù Cristo dell'universo, la nostra chiesa, ricevere Gesù Eucarestia e vivere nella comunione con tutti i nostri fratelli, quando noi ci sentivamo deboli, ci desse la forza. Così abbiamo potuto affrontare le prove, e portare a nostra figlia la speranza e la pace interiore. Proprio in quello stesso periodo, in cui iniziò la malattia di nostra figlia, nostro figlio assunse un nuovo impegno lontano da casa. Possiamo testimoniare che, mai come in quel tempo, ci siamo sentiti vicini: la sua offerta a Dio, unita al nostro compito, ha aperto strade nuove e ci sono stati cambiamenti importanti in tutti noi. Abbiamo sentito come Dio guida, ci precede, ci sostiene e si glorifica in ogni prova e in ogni situazione.

Silvia e Fabrizio

Sono Silvia, ho 59 anni, mi sono sposata con Fabrizio, 44 anni, nella chiesa di Gesù Cristo dell’Universo nel settembre 2018, nel Santuario di Ghedi. Ci siamo conosciuti nel 2006, io reduce da un primo matrimonio (poi annullato) fallito a causa di una immaturità di entrambi, dal quale sono nati 3 figli. Con il mio primo marito, Lorenzo, ci siamo conosciuti nell’ambito di una vita mondana fatta di trasgressioni e abusi di droga, lui già con una dipendenza dalla cocaina. Ci siamo innamorati e volevamo cambiar vita e mettere su famiglia, con mille progetti e aspettative. Dopo poco ci siamo sposati. Se da parte mia avevo lasciato i miei “vizi”, non fu così per Lorenzo, che continuava a far uso di cocaina, di nascosto da me. Io ero immersa nel mio ruolo di madre, non me ne accorgevo, fino a quando la nostra vita cominciò a sprofondare: debiti, tradimenti e situazioni al limite che non sto ad elencare.

La nascita dei nostri figli aveva suscitato in me molta gratitudine a Dio e molte domande esistenziali. In quegli anni ricominciai a frequentare la chiesa, dopo molto tempo. Ci siamo sposati in chiesa, ma dalla mia cresima si può dire che non sono più andata. Conobbi un movimento cattolico, il Rinnovamento nello Spirito Santo, attraverso il quale ho incontrato Gesù e nella preghiera, nel rapporto intimo con il Signore, ho ricevuto risposte alle mie molte domande, con Lui il mio pensiero si trasformava giorno dopo giorno, sentivo di dover donare a Lui tutta la mia vita. Ne seguì un periodo di grandi prove/passaggi, nei quali ogni volta mi veniva chiesto da Gesù fiducia e amore per Lui, rinunciando a quella che era la mia idea di felicità, di amore, di famiglia, per scoprire la mia vera identità in Dio, ciò che per me era previsto dal mio concepimento.

Il matrimonio con Lorenzo giunse al capolinea nel 2000, con molta sofferenza per tutti e in seguito ottenni l’annullamento. Nel 2006 conobbi Fabrizio, lui aveva 28 anni, io 42. Lui veniva da una famiglia protestante, ma non praticante, nessuna idea di Gesù Cristo!! Io mi ero appena ripresa dal divorzio e da anni di grande fatica e desideravo un po’ di leggerezza. Così dopo alcuni tentennamenti, dovuti alla differenza di età, decisi di accettare il suo corteggiamento. Da subito mi accorsi che non era uno come tanti, il suo animo era pulito e integro. Non credeva in Dio, o meglio non si era mai posto il problema, ma potevo condividere con lui la mia fede e lui la rispettava. Mi faceva vivere momenti molto spensierati e ci divertivamo molto insieme. In quegli anni cominciai a sentire disagio frequentando la chiesa e il gruppo di preghiera, inizialmente pensai fosse questione della mia pigrizia spirituale, tuttavia, non sentivo scorrere lo Spirito Santo, mi sembrava tutto così preparato, così finto. Sentivo un vuoto dentro ogni volta. Un giorno, immersa nei miei pensieri e in procinto di organizzare una vacanza per evadere un po’ dalla quotidianità, sentii una voce femminile che diceva “Medjugorje”. Capii subito che era la voce della Madonna. Risposi a questa chiamata senza pensarci un attimo e partii per Medjugorje dopo pochi giorni, da sola. Per organizzare questo viaggio mi rivolsi al sacerdote del mio paese e fu poi attraverso di lui che conobbi Padre Tomislav Vlašić e Stefania Caterina. Questo viaggio mi rivelò un’immagine totalmente nuova di Maria Santissima. Era l’anno 2012. Iniziai poi a leggere i loro libri, prima di tutti “Oltre la Grande Barriera” e riconobbi in queste profezie la verità che da sempre il mio spirito ricercava; quel vuoto che sentivo dentro veniva riempito dalla Verità. Fabrizio in quello stesso anno decise di accompagnarmi in un viaggio in Terra Santa e poi a Medjugorje per la seconda volta, per curiosità e per amor mio. A Medjugorje il suo spirito si risvegliò, sentì una chiamata forte, totalmente inaspettata. Iniziammo così a partecipare insieme alla vita nella chiesa di Gesù Cristo dell’Universo, agli incontri della Fondazione Fortezza dell’Immacolata e nel 2016 abbiamo ricevuto il Segno. La nostra realtà di coppia si trasformava giorno dopo giorno, iniziavamo a contemplare l’azione di Dio l’uno nell’altra e il desiderio di offrirci l’uno per l’altra, perché la vita di Gesù potesse crescere sempre più in noi. Gesù ci chiese di sigillare il nostro amore con il matrimonio, mettendo Lui al centro della nostra vita. Questo generò in noi la consapevolezza di essere strumento nelle Sue mani a beneficio di molti, strumento del Suo amore, per generare amore.  Abbiamo compreso che il matrimonio è una missione, non una scelta personale. È sempre Dio che sceglie, a noi di rispondere. Oggi viviamo pienamente la nostra identità con immensa gratitudine e gioia. Non mancano certo le difficoltà, come in ogni matrimonio, partendo però da Lui, cosa direbbe Lui cosa farebbe Lui, queste difficoltà diventano occasioni di crescita e di elevazione. Ringraziamo Dio per quel che ha fatto in noi e attraverso di noi e per quello che ancora vorrà fare.

Alessandra e Alfonso

Carissimi fratelli e sorelle,

mi chiamo Alessandra. Ho 52 anni, e da quando ne avevo 24 sono risultata sieropositiva in HIV conclamato, trasmessomi da una persona che amavo. Appena ne sono venuta a conoscenza, ho rifiutato tutto e ho generato in me, e attorno a me, un'energia disgregante che mi ha portato a poco a poco a peggiorare la mia situazione spirituale e fisica. Ma, immersa nelle tenebre, ricordo benissimo la benedizione che ogni giorno mia nonna mi dava facendomi un segno della croce sulla fronte, soprattutto quando ero a un passo dalla morte, sola, in un letto di un ospedale, pesando appena 30 kg. A distanza di anni posso dire che quella benedizione mi ha donato la vera Vita. All'età di 27 anni, il Signore mi ha donato il mio futuro marito, Alfonso. Da questa unione, l'energia disgregante ha smesso di nuocermi, allontanata con potenza dal vortice trinitario dell'amore di Cristo, che tutto sana e tutto ricapitola in lui. Posso, e possiamo testimoniare, che la malattia vissuta con Lui, in Lui, e per Lui, è una Grazia non solo per chi ce l'ha ma soprattutto per chi ne è a stretto contatto, al punto che ad oggi, e siamo nel 2021, spesso mi sono dimenticata di averla. Tutti i miei parametri sono eccellenti da anni; in particolar modo dal 2008 da quando, con Alfonso, siamo andati in ritiro nella nostra casa Santuario di Medjugorje. Ecco, lì abbiamo conosciuto dei fratelli della Chiesa di Gesù Cristo dell'Universo che ci hanno parlato dell’offerta della vita, e cosi abbiamo incominciato ad offrirla a Gesù attraverso il Cuore Immacolato di Maria quotidianamente, e questa offerta non ci ha tolto nulla, anzi ci ha dato tutto, ci ha dato una vita risorta. Ora camminiamo insieme a Gesù nelle strade di questo mondo, corredentori insieme a Maria per elevare al Padre tutto quello che tocchiamo durante la giornata. Il nostro cammino prosegue testimoniando quello che siamo , facciamo parte di un popolo numeroso in tutto l’Universo che ha vinto la morte, un popolo dove Cristo Vivo in mezzo a noi glorifica ogni cosa. Ed io, Alfonso, marito di Alessandra, posso testimoniare che ho riconosciuto che quando ho incontrato Alessandra l'unico vero ammalato ero io, anche se agli occhi del mondo ero sano. Ho conosciuto Alessandra e, giorno dopo giorno, vederla sempre felice e sorridente pur avendo quello che aveva mi ha fatto vedere come stavo gettando la mia vita, seguendo lo spirito e le mode del mondo. Ecco, la sua vicinanza ha risvegliato in me il mio Sì detto al momento del concepimento ed insieme, giorno dopo giorno, stiamo camminando, con i nostri fratelli alla riscoperta di quel Sì, e ogni giorno è una gioia è una luce non solo per noi ma soprattutto per tutti coloro che ancora sono schiacciati dall'energia disgregante. Sì!! diamo la testimonianza che la malattia qualsiasi sia vissuta con Cristo in comunione con i fratelli è una grazia per tutti che offriamo con gioia a Dio Padre fino all'ultimo giorno su questo pianeta prima di entrare nella creazione nuova. Grazie

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